WBO – ScreenSud, l’azienda di reti in acciaio salvata e rilanciata dagli operai

Napoli, 28 febbraio 2020 – Sulle pagine dell’Avvenire di oggi la storia del workers Buyout ScreenSud.

«La nostra è una storia a lieto fine » . Si presenta così, sul proprio sito, la ScreenSud di Acerra, azienda che produce ed esporta in tutta Europa reti in acciaio. Lo è davvero una storia a lieto fine, quella dell’impresa napoletana finita in liquidazione nel 2012 e rilevata da 12 dei suoi 50 dipendenti con la formula del workers buyout, grazie alla quale i lavoratori di un’ azienda in crisi o destinata alla chiusura si impegnano nel suo salvataggio, trasformandosi da semplici lavoratori a veri e propri imprenditori. Quella della ScreenSud è una delle 350 storie italiane – non
tutte a lieto fine, ma una su due sopravvive – di operai che si sono rimboccati le maniche, hanno rilevato e rilanciato la propria fabbrica impegnando i propri risparmi, salvando così ben 15mila posti di lavoro.

Questi i numeri dal 1985 a oggi. È in quell’ anno che fu varata la legge Marcora (dal nome del suo promotore, il ministro dell’ Industria del
governo Spadolini, Giovanni Marcora), che regola questo tipo di imprese.

«La crisi economica di qualche anno fa lasciò a pezzi la nostra azienda, che allora si chiamava Lafer – racconta Raffaele Silvestro, presidente
della cooperativa di lavoratori a capo della ScreenSud -. Perdemmo tutte le commesse, e la società finì in liquidazione. In 12 decidemmo di rischiare il nostro Tfr e i soldi della mobilità per imbarcarci in questa impresa. Altri colleghi non ci hanno creduto. Non è stato semplice, anzi è stato non poco rischioso, ripensandoci». La prima cosa da fare è stata ridimensionare l’ azienda, così da poter dare vita a un progetto più sostenibile. «A esser sinceri, abbiamo selezionato i soci della futura cooperativa – spiega Silvestro -. Il problema della proprietà che ci ha preceduto, oltre alla crisi delle commesse, era proprio questo: non poter sostenere il costo del lavoro. Un problema che hanno tante aziende in Italia, che con la tassazione alta che ci impone lo Stato rende difficile fare impresa. Io che sono stato sia lavoratore che imprenditore lo so bene». Accanto a sé, i 12 hanno trovato una formidabile rete di credito solidale costituita da Cfi (Cooperazione finanza impresa), Coopfond e Fondo Sviluppo (i fondi mutualistici di Legacoop e Confcooperative), che hanno finanziato l’ operazione con 350mila euro. «All’ asta fallimentare abbiamo dovuto competere con il nostro principale competitor in Italia, un’ azienda di Alessandria – racconta ancora il presidente della cooperativa -. Abbiamo acquistato solo i macchinari utili al nostro progetto. Non è stato semplice poi convincere i nostri committenti europei della bontà del nostro progetto. C’ era molto scetticismo intorno a noi».

Ma lui e gli 11 suoi compagni d’ avventura alla fine ce l’ hanno fatta, hanno salvato i propri posti di lavoro e oggi fatturano quasi 2 milioni di euro l’ anno.

Fonte: Articolo Avvenire

28 Febbraio 2020